Coscienza e stato vegetativo: il recente libro di Adrian Owen

Esiste una paura condivisa che ci colpisce tutte le volte che uno specifico disturbo di coscienza viene nominato: lo stato vegetativo. Si tratta di una condizione clinica di cui la cronaca si è occupato molto nel recente passato e sui cui ciascuno di noi si è sicuramente interrogato. Lo stato vegetativo suscita in noi la paura di poterne essere vittima. Non è raro udire l’opinione di chi preferirebbe terminare la propria vita se tali circostanze dovessero verificarsi. Per molti questo destino può infatti apparire peggiore della morte. La paura che ci assale quando pensiamo ad una simile eventualità risiede nell’idea che il corpo possa diventare una prigione per la nostra mente. Una mente che potrebbe anche non esistere più, ma che, se per caso sopravvivesse, si troverebbe ad essere privata della possibilità di interagire con il mondo esterno in qualunque modo. Un modo di vivere che nel migliore dei casi ci immaginiamo soli e impotenti.

Cos’è esattamente lo stato vegetativo? In breve viene chiamata: la veglia senza coscienza. Si tratta di una condizione nella quale, in seguito ad un danno cerebrale, un soggetto è in grado di aprire gli occhi, di muovere parti del corpo, di dormire e di risvegliarsi, ma non di interagire con il mondo esterno. Non risponde alle domande. Non esegue un'istruzione che gli viene data. Non manifesta nessuna interazione con chi gli sta vicino o con il suo ambiente.

Una domanda accompagna però incessantemente chi a questi pazienti è vicino: è ancora presente qualcuno in quel corpo? Per molto tempo abbiamo saputo poco su questa particolare condizione, ma recentemente i lavori di un ampio gruppo di ricercatori ha cercato di dare una risposta a questa domanda. Fra loro, una delle menti più brillanti è quella di Adrian M. Owen, in questi giorni in Italia per presentare il suo ultimo libro, ‘Nella Zona Grigia, edito da Mondadori, e a Milano, al Congresso della Società Italiana di Neuroetica presso l’Università Vita-Salute San Raffaele, per partecipare ad un simposio. Ho avuto l’onore di presiedere questo simposio (che vedeva la partecipazione anche di Carlo Ferrarese.) e ho potuto quindi apprezzare di persona l’efficacia con cui Adrian ha portato me e il pubblico a capire gli aspetti più salienti della sua ricerca.

Lo scopo ultimo della sua attività è proprio quello di rispondere alla domanda che ci siamo appena fatti: ‘C’è ancora qualcuno in quel corpo?’. In termini più tecnici: ‘è ancora presente la coscienza nei pazienti in stato vegetativo o è davvero scomparsa?’. Siamo abituati ad attribuire ad un soggetto, ma anche ad un qualunque oggetto, la qualità ‘essere cosciente’ solo quando siamo in grado di interagire con lui. Se chiediamo una cosa, ci attendiamo una risposta. Se tendiamo la mano, ci aspettiamo che venga stretta. Questi pazienti però non rispondono alle nostre sollecitazioni.

Dal punto di vista scientifico però la domanda diventa un pochino più complessa: ‘Non rispondono perché in effetti non vi è più coscienza o perché la loro condizione clinica glielo impedisce?’. Il prof. Owen fece quindi scalpore quando, in un articolo pubblicato sulla rivista Science nel 2006 mostrò che alcuni pazienti in stato vegetativo erano chiaramente coscienti. Lo fece usando un trucco ingegnoso: disse ai pazienti che avrebbe posto loro alcune domande. Se era loro intenzione rispondere sì, avrebbero dovuto immaginare di giocare a tennis. Se avessero invece voluto dire di no, avrebbero dovuto pensare di andare dalla loro camera da letto alla cucina. Il motivo di questa strategia? Quando il cervello pensa di fare queste due azioni attiva aree molto diverse fra loro; usando quindi uno strumento che permette di vedere dove il cervello si attiva, la risonanza magnetica funzionale, si può vedere se e come il paziente risponde. Fu davvero un risultato sorprendente; così tanto che viene addirittura citata nell’ultimo film di X-Files!

Da questo primo dato, il lavoro del Prof. Owen è poi proseguito, sviluppando tecniche sempre più sofisticate per cercare di ‘misurare’ la presenza della coscienza nelle condizioni più estreme, sfruttando davvero approcci ingegnosi come la visione dei film di Hitchcock. In quale modo il maestro del brivido sia utile? Quando guardiamo un film, il nostro cervello attiva una serie di regioni cerebrali che gli servono per seguire la trama. Può sembrare straordinario, ma i cervelli degli spettatori che guardano lo stesso film si attivano nello stesso modo, seguendo l’alternarsi emotivo della trama del film. Ecco quindi che mostrando un film con una trama sfaccettata ad un soggetto in stato vegetativo, si può capire se l’attivazione del suo cervello correla a sua volta con quella dei normali spettatori. Nel caso che questo succeda, sappiamo che in quel soggetto è per lo meno abbastanza cosciente da seguire una narrazione. Ciascuno di questi esperimenti ci porta quindi sempre più vicini a capire quando vi sia ancora coscienza all’interno di un soggetto, e ha mostrato che esiste un metodo che permette di rilevarne la presenza con un alto grado di confidenza.

Esistono però anche i casi straordinari. Come quello di un recente paziente del Prof. Owen che, a discapito di una totale assenza di qualsiasi tipo di risposta cerebrale, ha poi mostrato un recupero straordinario, al momento ancora senza spiegazione. Se quindi le tecnologie più moderne ci consentono di far emergere quell’interazione con l’ambiente che è necessaria per dire che la  coscienza esista ancora, non siamo ancora sicuri che, qualora l’esito dei test sia negativo, la coscienza effettivamente non ci sia.

Quanto ho riportato qui è un brevissimo riassunto di quanto presentato dal Prof.Owen oggi; molto di più può essere trovato nel suo bellissimo libro, che accompagna il lettore nella storia di questa affascinante ricerca, descrivendone sia l’aspetto umano che, in parole molto semplici, quello scientifico. Un libro assolutamente consigliato.

La Neuroetica: è una duplice disciplina che studia da un lato l’etica della ricerca nel campo delle neuroscienze e dall’altro quali sono i substrati neuronali dell’etica. In Italia, la Società Italiana di Neuroetica (SINe, http://societadineuroetica.it/) è una società scientifica che unisce ricercatori in diversi settori, dalla filosofia alle neuroscienza, dall’economia al diritto, che lavorano per capire quali sono gli impatti che la ricerca neuroscientifica ha e avrà sulla società.